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Il testamento di Bertoldo

Il testamento di Bertoldo

Il Testamento di Bertoldo
Il Testamento di Bertoldo

Il testamento di Bertoldo, personaggio del famoso libro Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno di Giulio Cesare Croce, con i suoi detti sentenziosi e il suo epitaffio.

Detti sentenziosi di Bertoldo innanzi la sua morte.

Chi è uso alle rape non vada ai pasticci.
Chi è uso alla zappa non pigli la lancia.
Chi è uso al campo non vada alla corte.
Chi vincerà il suo appetito sarà un gran capitano.
Chi non mangia da tutte due le bande, non è buona simia.
Chi guarda fisso nel sole e non strenuta, guàrdati da quello.
Chi ogni dì si veste di nuovo, grida ognor con il sartore.
Chi lascia stare i fatti suoi per far quelli d’altri, ha poco senno.
Chi vuol salutare ognuno frusta presto la berretta.
Chi batte la moglie dà da mormorare ai vicini.
Chi misura il suo stato non sarà mai mendico.
Chi gratta la rogna d’altri la sua rinfresca.
Chi promette nel bosco, deve osservare la parola nella città.
Chi ha paura degli uccelli non semini il miglio.
Chi farà come il riccio starà sempre sicuro in casa.
Chi va in viaggio porti il pane in seno e il bastone in mano.
Chi crede ai sogni fonda i suoi pensieri nella nebbia.
Chi pone la sua speranza in terra, si discosta dal cielo.
Chi è pigro delle mani non vada a tinello.
Chi ti consiglia in cambio d’aiutarti, non è buon amico.
Chi castiga la cagna, il cane sta discosto.
Chi imita la formica l’estate, non va per pane in presto il verno.
Chi tira il sasso in alto, gli torna a dare sul capo.
Chi va alla festa e ballar non sa, ingombra il loco e altro non fa.
Chi tuol moglie per robba, la borsa va a marito.
Chi dà il maneggio di casa alle donne, ha sempre le filiere all’uscio.
Chi non può portar la sua pelle è una trista pecora.
Chi usa la robba in mala parte, alla morte vede le sue partite.
Chi loda uno innanzi che l’abbia praticato, spesso si dà delle mentite da se stesso.
Chi dà del pane ai cani d’altri, spesso vien latrato dai suoi.
Chi non dà la sua mercede all’operaio non ha dell’uomo giusto.
Chi mangia a gusto d’altrui non mangia mai cosa che gli faccia pro.
Chi si pretende di saper nulla, quello è più sapiente degli altri.
Chi vuol correggere altri, diasi buon essempio a se medesimo.
Chi fugge le volontà terrene, mangia frutti celesti.
Chi si trova senza amici è come corpo senza anima.
Chi manda la lingua avanti del pensiero non ha del saggio.
Chi all’uscir di casa pensa quello che ha da fare, quando torna ha finito l’opera.
Chi dà presto quello che promette, dà due volte.
Chi pecca, e fa peccar altrui, ha da far due penitenze in una volta.
Chi a se stesso non è buono, manco può esser buono per altri.
Chi vuol seguir la virtù, bisogna scacciare il vizio.
Chi domanda quello che non spera d’avere, a se stesso nega la grazia.
Chi ha buon vino in casa, ha sempre i fiaschi alla porta.
Chi elegge l’armi vuol combattere con vantaggio.
Chi navica nel mar delle sensualità si sbarca al porto delle miserie.
Chi del ben d’altri si attrista, altri ride del suo male.
Chi ti lecca dinanzi, ti morde di dietro.
Chi sta in sospetto, vada a buon’ora a letto.
Chi ha la virtù per guida va sicuro al suo viaggio.

Detti sentenziosi di Bertoldo
Detti sentenziosi di Bertoldo

Morte di Bertoldo e sua sepoltura.

I medici non conoscendo la sua complessione, gli facevano i rimedi che si fanno alli gentiluomini e cavalieri di corte; ma esso, che conosceva la sua natura, teneva domandato a quelli che gli portassero una pentola di fagiuoli con la cipolla dentro e delle rape cotte sotto la cenere, perché sapeva lui che con tal cibi saria guarito; ma i detti medici mai non lo volsero contentare.

Così finì sua vita con questa volontà, colui ch’era tenuto un altro Esopo da tutti, anzi un oracolo, e fu pianto da tutta la corte, e il Re lo fece sepelire con grandissimo onore, e quei medici si pentirono di non gli aver dato quant’esso gli addimandava nell’ultimo, e conobbero che egli era morto per non l’aver essi contentato. E il Re, a perpetua memoria di questo grand’uomo, fece scolpire nella sua sepoltura in lettere d’oro i seguenti versi in forma d’epitafio, facendo vestire di nero tutta la sua corte, come se fosse morto uno dei primati di quella.

Epitafio di Bertoldo.

In questa tomba tenebrosa e scura
Giace un villan di sì difforme aspetto,
Che più d’orso che d’uomo avea figura;
Ma di tant’alto e nobile intelletto
Che stupir fece il mondo e la natura.
Mentr’egli visse e fu Bertoldo detto,
Fu grato al Re; morì con aspri duoli
Per non poter mangiar rape e fagiuoli.

Testamento di Bertoldo trovato sotto al capezzale del suo letto, dopo la sua morte.

Queste sentenze tutte fece il Re imprimere in lettere d’oro, e quelle poner sopra la porta della sala regia, acciò ognuno le potesse vedere, né si poteva consolare della perdita di così grand’uomo.

E quelli i quali erano restati custodi della camera del detto Bertoldo, nell’accommodare il letto dove esso dormir solea, trovorno sotto il matarazzo un fagotto di strazzi e di scritture, dove senz’altro indugio portarono il detto stramazzo inanzi al Re, il quale, facendolo subito sciorre, trovò tra quelle tattare il testamento che il detto aveva fatto molti giorni innanzi ch’ei morisse, né mai l’aveva palesato a nissuno; la causa, forse, acciò che nissuno non sapesse di che stirpe né di che parte egli si fusse, essendo un uomo così stravagante.

Or sia come si voglia, commandò il Re adunque che subito si andasse per il notaro che l’avea fatto, acciò glielo leggesse alla presenza sua; e così il detto notaro comparve in un tratto e, fatto la debita riverenza al Re, disse:
Notaro. Eccomi, Sacra Corona, per essequire quel tanto che da lei mi sarà comandato.
Re. Avete voi fatto il testamento di Bertoldo?
Notaro. Sì, Sacra Maestà, ch’io l’ho fatto.
Re. E quanto è che l’avete fatto?
Notaro. Può essere da tre mesi in circa.
Re. Or eccolo, prendetelo e leggetelo voi, ché questa lettera notaresca non capisco troppo, per le stravaganti zifere che vi solete fare per dentro.
Notaro. Anzi, Signore, ch’io non so scrivere se non volgare, perché mai non potei passare il Donato con tutto ciò ch’io andassi alla scuola ventidue anni, e però non attendo ad altro che alle differenze de’ villani.

Testamento e sepoltura di Bertoldo
Testamento e sepoltura di Bertoldo

Re. Qual è il vostro nome?
Notaro. Io mi addimando Cerfoglio de’ Viluppi, per servirla sempre.
Re. Bel nome avete certo e anche il cognome può passare; ma vi starebbe meglio al parer mio nome Sier Imbroglio, poiché imbrogliate così bene il mondo. Orsù, leggete allegramente, Sier Cerfoglio, e dite forte, adagio e chiaro, ch’io v’intenda.

Sier Cerfoglio legge il testamento.

Al nome del buon cominciamento, e sia in bene; vedendo e conoscendo io Bertoldo figliuolo del quondam Bertolazzo, del già Bertuzzo, di Bertin, di Bertolin da Bertagnana, che tutti noi mortali siamo proprio come tante vessiche gonfie che ogni picciola pontura le manda a spasso, e che come l’uomo giunge agli settant’anni, come oramai io mi ritrovo, si può dire che sia sulle ventitre ore e che non possa stare a battere le ventiquattro, e poi buona notte.

Però fin ch’io mi trovo un poco di sale nella zucca voglio accomodare alquanto i fatti miei con fare un poco di testamento sì per mia sodisfazione, come anco per sodisfare a’ miei parenti e amici ai quali io mi trovo esser obligato; e così voi, Sier Cerfoglio, sarete pregato di rogarvi di questo mio testamento e mia ultima volontà e prima.

Lasso a mastro Bartolo ciavattino le mie scarpe da quattro suole, e otto soldi di moneta corrente per essermi stato sempre amorevole e avermi più volte prestato la lesina da trappongere i tacconi e fatto altri servigi, etc.
Item a mastro Ambrogio spacciator di corte soldi diece per avermi più volte portato il braghiero a far conciare e fatto altri servigi, etc.

Item a barba Sambuco ortolano il mio cappello di paglia per avermi talora dato un mazzo di porri la mattina a buona ora per fare buon stomaco e aguzzarmi l’appetito.
Item a mastro Allegretto canevaro la mia correggia larga e il scarsellotto, per avermi empito il bottrigo ogni volta che io ne avea bisogno, e fatti altri servigi, etc.

Item a mastro Martino cuoco il mio coltello e la mia guaina per avermi alcune volte cotto delle rape sotto le cernici e fatto della minestra de fagiuoli con della cipolla, cibo conferente alla mia natura più assai che le tortore, le pernici e i pastizzi, etc.

Item alla zia Pandora bugattara il mio pagliarizzo dove dormo suso e due scaranne, desligate e tre brazza di tela da farsi due grembiali, e questo per avermi più volte lavato i scalfarotti e tenuto nette le mie massarizie, etc.

Item, il resto de’ strazzi, tattare e ciangatole ch’io mi trovo nella camera, rinuncio e lascio a mastro Braghetton solfanaro, per avermi talora portato a donare un castagnaccio e altre cosette uguali al mio gusto, etc.

Saggezza di Bertoldo
Saggezza di Bertoldo

Item, lasso a Fichetto ragazzo di corte stafillate numero venticinque con un buon stafile per avermi forato l’orinale e fattomi pisciare nel letto e attaccatomi un chiocchetto overo zaganella di dietro e orinato in una scarpa e fattomi molte altre burle; e questo bramo sia essequito quanto prima etc., perché egli è un gran tristo, etc.

Re. Di questo non si mancherà etc. Seguitate pur innanzi, Sier Cerfoglio.
Notaro. Item, perché quando venni qua giù, che ne foss’io digiuno, io lasciai la Marcolfa mia moglie con un figlio chiamato Bertoldino che deve aver da diece anni in circa, né però mi lasciai intendere dov’io mi gissi acciò non mi tenessero dietro, non avendo mostacci da comparire in questi luochi, parendo più tosto babuini che altro, e trovandomi aver un podere e certe poche bestiole, lascio la Marcolfa donna e madonna d’ogni cosa fin che il figliuolo abbi venticinque anni, che poi allora voglio sia padrone assoluto d’ogni cosa, con patto che se esso piglia moglie cerchi di non impazzarsi con gente da più di sé.

Che non si domestichi con i suoi maggiori.
Che non dia danno ai suoi vicini.
Che mangi quando n’ha, e che lavori quando può.
Che non pigli consigli da gente che sia andata a male.
Che non si lasci medicar a medico amalato.
Che non si lasci cavar sangue a barbiero che gli tremi la mano.
Che dia suo dovere a tutti.
Che sia vigilante ne’ suoi negozi.
Che non s’impacci in quello che non gl’importa.
Che non facci mercanzia di quello che non s’intende.

E sopra il tutto ch’ei si contenti del suo stato, né brami di più, e consideri che molte volte l’agnello va innanzi la pecora, cioè che la morte ha la balestra in mano per tirare tanto a’ giovani quanto a’ vecchi; che se pensarà a tutte queste cose, non inciamperà mai in cosa che gli possa dar danno, e farà felice ed ottimo fine.

Item, non mi trovando altro, poiché non ho voluto accettar mai nulla dal mio Re, il quale non ha mancato di persuadermi a prendere da lui anelli, gioie, danari, veste, cavalli e altri ricchi presenti, perché forse con simili ricchezze non avrei mai posato e forse ancora avrei fatto mille insolenze, e fattomi odioso a tutti, come alcuni che, di bassi e vili che sono, ascendono per fortuna a gradi alti e sublimi, né però con tante dignità non escono fuora del fango del quale sono impastati; io mi contento di morir povero e sapere ch’io non ho mai usato adulazione al mio Re, ma sempre consigliatolo fedelmente in ogni occasione ch’egli mi ha chiamato, parlando liberamente secondo che io l’ho inteso, e non altrimente.

E per mostrargli parimente in quest’ultimo fine l’affetto ch’io gli porto, gli lascio questi pochi di documenti, i quali non si sdegnarà accettare e osservare insieme, ancor ch’essi eschino fuor della bocca di un rustico villano, e sono questi, cioè:

La morte di Bertoldo
La morte di Bertoldo

Di tenere la bilancia giusta, tanto per il povero, quanto pel ricco.
Di far veder minutamente i processi, inanzi che si venghi all’atto del condennare.
Di non sentenziare mai nessuno in colera.
Di farsi benevoli i suoi popoli.
Di premiare i buoni e i virtuosi.
Di castigare i rei.
Di scacciar gli adulatori, i gnattoni e le lingue mal dicenti che mettono fuoco per le corti.
Di non aggravare i suoi sudditi.
Di tenere la protezzione delle vedove e pupilli, e difendere le loro cause.
Di espedire le liti, né lasciare stracciar i poveri litiganti, né farli correre in su e giù per le scale del foro tutto il giorno.
Che osservando questi pochi ricordi viverà lieto e contento, e sarà tenuto da tutti per ottimo e giusto Signore, e qui finisco.

Udito il Re il prefato testamento e gli ottimi ricordi a lui lasciati, non puoté fare che non mandasse le lagrime fuor degli occhi, considerando alla gran prudenza che rognava in costui e l’amor e la fedeltà che esso gli avea portato in vita e dopo la morte.

E così, fatto donare a Sier Cerfoglio cinquanta ducati, lo licenziò; poi, secondo che il Magno Alessandro conservò fra le più care e preciose gioie l’Iliade d’Omero, così esso fece riporre il detto testamento fra le sue più ricche e pregiate gemme; poi cominciò a fare instanza che si trovasse dove fosse il suo figliuolo Bertoldino e la Marcolfa sua madre e che si conducessero alla città, che per ogni modo gli voleva appresso di lui, per memoria del detto Bertoldo; e così espedì alquanti cavalieri che l’andassero a cercare per quei monti e boschi vicini e che non tornassero a lui se non gli avevano con essi.

Così si partirono i detti cavalieri, e tanto andarono girando attorno che li trovarono. Ma di quello che ne seguì, s’udirà in un altro volume, e presto, che questo non passa più oltre per ora, lasciandovi intanto il buon giorno. Addio.

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