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Il crack Parmalat. Una truffa colossale.

Il crack Parmalat. Una truffa colossale.

Il famoso crack Parmalat
Il famoso crack Parmalat

Il Crack Parmalat, la storia di un caso finanziario eccezionale. Una truffa colossale per la società italiana con links a risorse su trading e investimenti.

Sul caso Parmalat si sono scritte persino delle tesi di Laurea che cercano di fare chiarezza su certi aspetti della vicenda. Lavori che analizzano e confrontano in primo luogo la rappresentazione patrimoniale fittizia, effettuata dagli amministratrori, e la rappresentazione reale effettuata dal commissario straordinario, Enrico Bondi, e le varie tecniche finanziarie utilizzate per distrarre risorse all’azienda.

In ogni caso c’è da affermare chiaramente che la gestione fraudolenta del gruppo è stata permemessa dall’atteggiamento del tutto inesistente degli organi di controllo, e dal macroscopico conflitto di interessi in cui si trovavano le società di revisione responsabili del controllo contabile del gruppo.

E’ chiaro che il conflitto di interessi è la principale minaccia per l’indipendenza, quindi l’obiettività di un sindaco o un revisore. L’indipendenza infatti è un requisito fondamentale per la professione economico giuridico contabile.

Purtroppo proprio alla luce del crack Parmalat, l’attività di controllo societario si è dimostrata del tutto inefficente, per questo servirebbero delle profonde modifiche per migliorare l’attività di revisione contabile al fine di evitare futuri crack finanziari.
Carl William Brown

L’ex patron di Parmalat Calisto Tanzi, oggi 23 aprile, è stato condannato dalla Corte di Appello di Bologna a 17 anni e 10 mesi di reclusione, per quanto riguarda il crack Parmalat. L’ex imprenditore è accusato di bancarotta fraudolenta e associazione a delinquere. Insieme a Tanzi, è stato condannato anche l’ex direttore finanziario Fausto Tonna a 9 anni, 11 mesi e 20 giorni.

La vicenda ha inizio nel febbraio 2003, quando la Parmalat chiese un prestito da 300 milioni di euro, al fine di emettere un bond da rimborsare in sette anni, al tasso del 7,75%. La liquidità della società risultava in parte investita su un fondo delle Cayman chiamato Epicurum, e un’altra parte -3,95 milioni di euro- su un conto corrente della Bank of America di New York, accesso da una controllata offshore: la Bonlat.

Come se non bastasse, l’azienda emise due nuovi obbligazioni, rispettivamente a giugno e settembre 2003, del valore di 300 e 350 milioni, sottoscritte da investitori istituzionali come Nextra e Deutusche Bank.

Secondo i bilanci della società, in cassa risultavano 3,3 miliardi di euro. Perché, quindi, chiedere un prestito?
A porsi una domanda del genere è anche la Consob, la quale chiese alla Grant Thornton -la società di revisione della Parmalat- a quanto ammontasse la liquidità depositata a New York.

Il 17 dicembre 2003 è una data da tenere bene a mente, poiché è da questo momento in poi che le strane operazioni della società di Tanzi diverranno pubbliche. Un funzionario di Bank of America, proprio il 17 dicembre 2003, risponde alla richiesta di notizie di Maurizio Bianchi -partener milanese della Grant Thornton- circa l’ammontare di liquidità depositata nella banca.

La banca statunitense, risponde che “non ha alcun rapporto con Bonlat e l’estratto conto del 6 marzo 2003 che hai allegato (riferendosi al revisore di Parmalat Maurizio Bianchi ndr) è falso e non proviene dai nostri uffici”.

Il revisore dei conti, il giorno dopo, trasmise il fax alla Consob e alle Procure di Milano e di Parma. E la Procura di Milano, già dai primi interrogatori, cominciò a capire come funzionava il sistema Parmalat: in pratica venivano emesse sempre nuove obbligazioni, al fine di rimborsare i debiti precedenti, causando così una voragine nei conti della società.

Molte banche, pur avendo il sentore dell’imminente crack, spingevano comunque la clientela a comparare titoli Parmalat.
Circostanza confermata ai magistrati dall’ex direttore finanziario Fausto Tonna:
“I bilanci da noi presentati (il gruppo Parmalat ndr) alle banche, pur contenendo dati non veritieri, non erano sufficientemente idonei a ingannare una persona esperta in quanto sarebbe bastato che quest’ultima confrontasse il debito lordo del bilancio con quello reale, ricavabile dai dati pubblici (tutte le emissioni di bond e di private placement nonché le securitysations sono rese pubbliche) o comunque accessibili alle banche attraverso la Centrale Rischi, per rendersi conto delle differenze e quindi delle falsità contenute nei bilanci medesimi[…].

Fino a quando sono stato direttore finanziario, nessuno ha mai richiesto rientri di linee di affidamento in coincidenza con emissione di bond. Le banche, al contrario, proponevano molto spesso alla Parmalat le emissioni di bond sulle quali percepivano laute commissioni, con conseguenti bonus a fine anno ai funzionari che partecipavano all’operazione. Nei prospetti informativi di tutti i bond emessi da Parmalat vi è un divieto al pubblico. I bond dovevano invece essere collocati presso investitori istituzionali e banche.

Pertanto, se parte di questi bond sono finiti nelle mani di investitori privati, la responsabilità è solo delle banche. Cosa diversa sono le obbligazioni emesse dalla Parmalat Finanziaria su prospetto Consob. Queste ultime possono essere destinate anche al pubblico. Secondo me, se ricordo bene, dal prospetto informativo emergeva che i bond non potevano essere venduti negli Stati Uniti”.

Quindi, dalle dichiarazioni di Fausto Tonna rese ai magistrati, pare di capire che la responsabilità è tutta in capo alle banche, poiché per le obbligazioni emesse da Parmalat, c’era l’esplicito divieto di collocarle presso il pubblico. Di più: gli stessi funzionari, che proponevano ai risparmiatori i titoli della società, ricevevano dei bonus. Nonché laute commissioni.

Ma la vicenda non si ferma qui, poiché i pm di Milano, Francesco Greco, Carlo Nocerino, ed Eugenio Fusco, scoprirono che il gruppo Parmalat era entrato in crisi già dal 1986, durante il disastro nucleare di Chernobyl che aveva provocato un forte calo nelle vendite del latte.

Sul finire degli anni 80, i conti della società erano in rosso di circa un centinaio di miliardi di lire e, per evitare il peggio, Tanzi ne decise la quotazione in Borsa. Ma per avviare l’operazione doveva liberarsi del network televisivo Odeon Tv che aveva debiti per 160 miliardi di lire, e nel quale aveva investito decine di miliardi di lire.

L’allora patron di Parmalat fu costretto a rivolgersi alle banche e proprio l’Icle, un istituto di credito, erogò 120 miliardi di lire di prestito. In seguito Odeon Tv venne ceduta alla Sasea, società estera di Florio Fiorini.
Il gruppo di Collecchio entrò così in Borsa senza subire particolari controlli dalla Consob. Ma la situazione economica non migliorò, così Tanzi inventò un sistema ingegnoso che andò avanti per anni: venne creato il fondo Epicurum, che era stato ideato dall’allora direttore finanziario Tonna, e in cui vennero investiti 400 milioni di euro, che in seguito finivano sulla Parmatour. Così facendo, i soldi venivano registrati come crediti per la società e finivano direttamente nel fondo.

L’operazione serviva per gettare “fumo negli occhi” al mercato, in modo che i conti della società risultassero a posto. Un’altra operazione che serviva allo stesso scopo era l’emissione di fatture false.
Poiché le fatture figuravano come crediti, e questi crediti devono essere incassati, Tonna e il contabile Bocchi si inventarono il “famoso” conto corrente accesso presso la Bank of America e che come, abbiamo già visto, la stessa banca, afferma che non esiste.

Sul conto della banca, figuravano 3,9 miliardi di euro, in questo modo tutte le altre banche, credendo di trovarsi davanti ad un’azienda sana, continuavano ad erogare prestiti “malgrado i bilanci non fossero il massimo della trasparenza e […] pur affermando di possedere liquidità consistente”, così come dichiarato da Tanzi.

Infatti, si temeva che anche una sola rata di prestito non onorato avrebbe provocato, come era successo alla Cirio, sulla base delle clausole del cross default, il rientro precipitoso di tutta l’esposizione verso le banche e il mercato finanziario. Ma quali sono le banche coinvolte? La lista comprende: JP Morgan Chase Manhattan, Bnp Paribas, Deutusche Bank, Citigroup, Morgan Stanley, Merril Lynch, Credit Suiss Fisrst Boston, Barclays, Bear Starns e Ubs.

È da notare che le banche coinvolte nell’affare Parmalat sono le stesse che poi finiranno nell’occhio del ciclone anni dopo, per la crisi finanziaria innescata dai mutui subprime.

Sul versante del crack non indagò solo la Procura di Milano ma anche quella di Parma, la quale su Barclays Bank e l’agenzia di rating S&P, scrive che “nel periodo 2002-2003 concorrevano a causare la dichiarazione di insolvenza agevolando il gruppo Parmalat nell’emissione e nel collocamento sul mercato degli investitori di eurobond per un importo di 4,073 miliardi e private placement per oltre 786 milioni”.

Ma i destini di Barclays e S&P, si sono incrociati ben prima del 2003, ovvero nel 1998, quando l’istituto di credito sottoscrisse un bond da 500 milioni di euro e ben presto si rese conto, che per collocarlo sul mercato, era necessaria una valutazione positiva da parte delle agenzie di rating.

E in soccorso dell’istituto di credito accorse S&P, la quale concesse un buon rating all’obbligazione sottoscritta, basandosi su dati di bilancio falsi. Secondo i pm della Procura di Parma, Barcalys si accordò con gli analisti dell’agenzia di rating, i quali “accogliendo le sollecitazioni prendevano in considerazione il solo indebitamento esposto nei bilanci consolidati”.  Inoltre il 15 novembre 2000, accadde una cosa di gravità inaudita:  i due analisti di S&P, De La Presle, e Dubois Pelerin, secondo i magistrati “attraverso il comunicato modificato su pressione di Barclays, disattendendo così il codice professionale di S&P, fornivano al mercato  informazioni non veritiere e comunque equivoche”.

Difatti, l’agenzia di rating attribuì alle obbligazioni Parmalat il rating BBB con outlook stabile. Questa valutazione indica un debito di qualità media ed incertezze sulle caratteristiche di investimento.  Il 28 febbraio 2003, De la Presle però rassicurò gli investitori prospettando un miglioramento della valutazione nel medio periodo.

Insomma, secondo l’accusa, i comunicati dell’agenzia, contenevano “notizie false in merito alla situazione economica, patrimoniale e finanziaria del gruppo, concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione dei titoli”.

L’11 dicembre 2003, quando ormai la Parmalat è schiacciata dai debiti, S&P abbassa il rating a B+ e poi a D: ovvero default.

In questa storia ci sono stati troppi errori: la Consob, che doveva controllare le caratteristiche finanziarie del gruppo Parmalat, prima della quotazione in Borsa, ha fatto ben poco. Banche che hanno sottoscritto le obbligazioni emesse dalla società, e S&P che ha ingannato gli investitori, alterando le valutazioni sull’affidabilità del gruppo, su pressione di Barclays.
Ancora una volta, come al solito, a rimetterci sono solo i risparmiatori.

Gianluca Iozzi

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