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La letteratura e i potenti

La letteratura e i potenti

Il tempo della scrittura
Il tempo della scrittura

La letteratura e i potenti. Un testo del grande autore Pietro Citati che analizza i rapporti e le relazioni passate e presenti della letteratura con il potere.

Del resto c’è da chiedersi cos’è più scandaloso: se la provocatoria ostinazione dei potenti a restare al potere, o l’apolitica passività del paese ad accettare la loro stessa fisica presenza…
Pier Paolo Pasolini

La sicurezza del potere si fonda sull’ insicurezza dei cittadini.
L. Sciascia

Che meraviglia sarebbe se la razza umana, al pari di alcune specie animali, praticasse il suicidio di massa in un modo finalmente serio e convincente, non come ha fatto sinora giocando alla guerra.
Carl William Brown

Il potere esercitato giustamente deve essere leggero come un fiore; nessuno deve sentirne il peso.
Mahatma Gandhi

Insomma: per allontanare la minaccia terribile del riarmo e della guerra non servono né congressi né conferenze né trattati né tribunali internazionali: serve solo l’annientamento di quella violenza organizzata che si fa chiamare governo e che è la causa delle peggiori miserie dell’umanità. E per realizzare ciò occorre rendersi conto che il sentimento nazionale, base dello stato, è un sentimento rozzo, deleterio, ignominioso, ma soprattutto immorale.
Lev Tolstoj

Esistono due modi per essere felici in questa vita, uno è di fare l’idiota e l’altro è di esserlo.
Sigmund Freud

Mi ricordo uno strano tipo che odiava tutti gli uomini, quelli potenti perché sfruttavano e umiliavano i deboli, e quelli deboli perché si lasciavano sfruttare ed umiliare.
Carl William Brown

Milioni di uomini, rinunciando ai loro sentimenti umani e alla loro umana ragione, dovevano andare da occidente a oriente e uccidere i loro simili, così come secoli prima altre folle di uomini erano andati da oriente a occidente per agire all’identico modo. La storia dell’umanità è piena di prove che la violenza fisica non contribuisce al rialzamento morale e che le cattive inclinazioni dell’uomo non possono essere corrette che dall’amore; che il male non può sparire che per mezzo del bene; che non si deve fare assegnamento sulla forza del proprio braccio per difendersi dal male; che la vera forza dell’uomo è nella bontà, la pazienza e la carità; che solo i pacifici erediteranno la terra e che coloro i quali di spada avran ferito di spada periranno.
Lev Tolstoj

Quando il potere dell’amore supererà l’amore per il potere il mondo potrà scoprire la pace.
Jimi Hendrix

Come ci ha insegnato il grande Tolstoj, i responsabili delle guerre e delle sofferenze sono sempre i governanti ed i potenti, raramente le persone comuni.
Carl William Brown

Napoleone Bonaparte
Napoleone Bonaparte

Maestro, vorrei sapere come vivono i pesci nel mare. “Come gli uomini sulla terra: i grandi si mangiano quelli piccoli”.
William Shakespeare

Il potere è la capacità di raggiungere degli scopi. Il potere è la capacità di effettuare dei cambiamenti.
Martin Luther King

I potenti rammentino che la felicità non nasce dalla ricchezza né dal potere, ma dal piacere di donare.
Fabrizio De André

In all history there is no war which was not hatched by the governments, the governments alone, independent of the interests of the people, to whom war is always pernicious even when successful.
Leo Tolstoy

Government is an association of men who do violence to the rest of us.
Leo Tolstoy

The greater the state, the more wrong and cruel its patriotism, and the greater is the sum of suffering upon which its power is founded.
Leo Tolstoy

In un capitolo di Guerra e pace, Nikolaj Rostov passeggia in una piazza di Tilsit, confuso nella folla che attende l’incontro tra Napoleone ed Alessandro di Russia. L’attesa non dura a lungo. Napoleone giunge al galoppo, montando un cavallo arabo grigio che non sa cavalcare, con l’uniforme turchina aperta sul panciotto bianco. Scende da cavallo. È piccolo, ha le cosce grasse e le gambe corte, il ventre e il petto sporgenti: un sorriso antipatico e finto disegnato sul volto; e la sua voce tagliente scandisce odiosamente ogni sillaba.

Ad un tratto, comincia a togliersi un guanto, lo lacera, lo getta a terra: allunga la piccola e bianca mano grassoccia, prende una decorazione dal nastro rosso, la stringe tra le dita e la attacca senza guardare «sul petto del soldato Làzarev, come se Napoleone sapesse che bastava, perché quel soldato fosse sempre felice, ricompensato e segnalato tra tutti gli altri uomini, che la mano di Napoleone si degnasse di toccare il suo petto».

Nikolaj Rostov, e noi che insieme a lui stiamo assistendo da migliaia di anni a questa scena, ci domandiamo se quel l’uomo grassoccio e vanitoso fosse veramente il signore del mondo, il padrone della storia, il simbolo sognato da tre generazioni di giovani. Così poca, così misera cosa è, dunque, un potente? Qualche capitolo dopo abbiamo la risposta.

Lev Tolstoj
Lev Tolstoj

Centinaia di ulani polacchi si gettano a cavallo in un fiume, per dimostrare il loro amore a Napoleone. La corrente del fiume è rapida, profonda e tumultuosa; e «decine di ulani affogano insieme ai loro cavalli, fieri di nuotare ed affogare» sotto gli sguardi dell’uomo che, seduto sopra un tronco d’albero, li guarda con aria distratta e malcontenta. Ecco, ci diciamo senza capire, la cosa misteriosa che quest’uomo porta con sé, nascosta in ogni molecola della sua persona, è veramente il Potere.

Da Tacito a Shakespeare, da Plutarco a Tolstoj, la letteratura si è rivolta le stesse domande, che a Tilsit agitarono la giovane mente di Nikolaj Rostov. Chi è un potente? E cosa è il potere? Perché, in nome di questa forza, gli uomini sono stati uccisi a milioni sui campi di battaglia, trucidati nei letti dallo «smunto Assassinio», avvelenati, sgozzati, accecati? E quale desiderio ci spinge a morire come gli ulani di Napoleone? Il sentimento più naturale che uno scrittore nutra verso i potenti è l’avversione.

Abituato alla resistenza tenace delle parole, egli pensa che l’onnipotenza sovrana sia un orribile privilegio. Un grande della terra non è mai sé stesso, perché la sua persona domina altre persone, foggia le cose, si continua nello spazio. Non può mai dire: questo sono io; questa è l’opera delle mie mani e della mia mente. Non è amato, odiato, considerato per quanto egli è o scrive, ma per l’immensa appendice, per il gigantesco corpo che lo avvolge: il Potere… Tuttavia, malgrado questa avversione, uno scrittore ha sempre oscuramente riconosciuto nei potenti qualcosa di immenso; e li, ha scrutati, come se soltanto essi gli rivelassero i segreti dell’uomo, i simboli del mondo e, forse, sé stesso.

Nell’immagine del potente, gli storici e i poeti tragici, hanno continuato a scorgere per secoli l’immagine di Dio. Come Dio, il potente sta lontano: irraggiungibile, invisibile, ignoto agli altri esseri umani. Nessuno può varcare questa distanza, e giungere sino all’imperatore di Bisanzio seduto sul suo alto trono, al Figlio del Cielo che ascolta la musica dei suoi perfetti orologi, all’imperatore di Persia nella sua reggia, al trono vuoto di Alessandro; o a Stalin che dorme nel suo lettuccio, chiuso in una stanza del Cremlino. Anche se vi giungesse, non potrebbe conoscerli.

Il sovrano nasconde il vero volto dietro il velo fittissimo della finzione: imita, come scrisse uno spagnolo del Seicento, «il misterioso procedere divino, per tenere le persone in ansiosa attesa». Come Dio, egli è solo: senza veri amici, senza vera famiglia, senza eredi, senza passato, senza futuro, senza eserciti. Nulla assomiglia al suo sogno più di quanto osò un sultano di Delhi. Comprò tutte le case della città, ordinando agli abitanti di andare in un altro luogo. Nei palazzi e nelle catapecchie della capitale non rimase nemmeno un essere umano. Una notte il sultano salì sopra il tetto della sua reggia: volse lo sguardo su Delhi dalla quale non saliva né fuoco, né fumo, né luce; e soltanto in quel momento, davanti alla città deserta, solo nella sua reggia come Dio nel cielo, si senti completamente felice.

Alessandro Magno
Alessandro Magno

Il potente riesce ad abitare in questa solitudine semidivina, perché è sorretto da una forza che noi ignoriamo. «Io non sono come voi» dice Giulio Cesare nella tragedia di Shakespeare «io sono fermo e immutabile, come la Stella Polare, che per la sua fissità e immobilità non ha rivali nel firmamento. I cieli sono dipinti da innumerevoli scintille; e tutte sono fuoco, e ognuna splende: ma ce n’è una sola che conserva in eterno il suo luogo.

Così accade nel mondo, che è popolato da uomini… Eppure, di tutto il loro numero, ne conosco uno soltanto che se ne sta saldo, inespugnabile al suo posto, né movimento alcuno può scuoterlo. Quegli sono io…» Mentre l’impulso di dominare dà ai suoi gesti qualcosa di demoniaco, nel profondo dello spirito egli è calmo, freddo, distaccato, contemplativo. Domina le proprie passioni, impedisce al suo io di esibirsi: rinvia, pazienta, attende; preciso e oggettivo come lo sguardo che Dio e la Stella Polare gettano sul mondo. Se conserva questa calma nella tempesta, questa freddezza nello scatenamento, se dorme senza sogni la vigilia della battaglia che deciderà il suo destino, egli non ha bisogno di combattere. Il suo potere è già saldo nelle sue mani.

Quando agisce, ha di fronte migliaia di possibilità, che si contraddicono a vicenda. Se egli fosse uno scrittore, dedicherebbe la propria vita ad una sola di queste possibilità. Sul campo di battaglia, si perderebbe a contemplare la linea e i colori del paesaggio, le penne di un uccello che vola e si ferma arditamente sopra il suo capo, quale sia l’erba che i suoi cavalli calpestano, quali i destini degli uomini che combattono per lui, quali pensieri attraversano la mente del nemico, cosa significhi la caligine – nebbia o fumo di incendio – che cela il lontano orizzonte.

Il potente non vede questi particolari, non scorge queste possibilità. Egli alza il braccio, dà inizio alla battaglia, lancia una parola d’ordine semplicissima, inventa una formula elementare, che coglie una minima parte della realtà. Noi ci chiediamo: «Come farà a vincere, se non capisce le cose?». Ma proprio perché non capisce, sa aprire con la violenza le porte, per noi ostinatamente chiuse, della realtà. Vi entra, la possiede, e si insedia come un sovrano in questo luogo che non comprende.

La meta ultima alla quale aspira è l’onnipresenza di Dio. Tutto il mondo conosciuto – pianure e montagne, mari, fiumi, deserti, gente d’ogni lingua e d’ogni colore, erbe, animali, pensieri – deve riposare nella curva delle sue braccia. Quando il mondo è suo, egli muta volto. Come il sole allo zenit, lascia cadere sui milioni di sudditi che si agitano ai suoi piedi, sui nemici che ha ucciso, sugli uomini ancora da nascere che continueranno ad adorarlo un sorriso stranamente amoroso. Nessun sorriso umano così dolce, come questo sorriso nutrito di sangue. In quel momento, egli scende dal trono rivolgendosi al più umile dei suoi soldati e dei suoi cittadini, quasi fosse anche lui un soldato; e questa affabilità e amabilità improvvise non fanno che accrescere la sua lontananza da noi.

Alessandro di Russia
Alessandro di Russia

L’onnipresenza dei grandi ha anche un volto segreto, che i poeti tragici ci rivelano volentieri. Giunto al culmine della propria forza, qualche sovrano si accorge che proprio lui, che ha nelle mani tutto il potere, è Colui che non può. Egli dà ordini: gli ordini vengono eseguiti; ed ecco che le «unità infinitamente piccole», come Tolstoj le chima – il caso, la fantasia e i pensieri degli altri uomini, la natura, quella che noi diciamo «resistenza della realtà» stravolgono completamente il suo piano. Quanto ha realizzato è appena l’ombra contraffatta di quanto desiderava.

L’ultimo artigiano è più potente di lui: giacché il vaso, il tessuto o il carro portano l’impronta di chi li ha costruiti. Molto di rado, un sovrano è così forte da comprendere questa semplice verità. Ha il potere, e gli basta. Ma chi ha davvero tutto il potere? Egli può raggiungere con i suoi eserciti la Russia e l’India, abbracciare con le sue flotte gli oceani: nulla lo contiene o lo limita; eppure non possiede un bosco di tigli secolari, che allungano la loro ombra presso il suo palazzo. Appena il vento porta fino a lui il profumo dei tigli che non possiede, gli sembra che il suo immenso dominio sia vano. Così il potente è il più infelice tra gli uomini. La sete di dominio uccide nella sua anima «il sonno innocente, … il sonno che pettina e ravvia il filaticcio di seta arruffato delle cose di quaggiù, balsamo della dolente anima stanca».

Se le palpebre sono arrossate dall’insonnia, se l’occhio è ferito dalla spina del possesso, non riesce a contemplare la bellezza del mondo, che continua a rivelarsi ai suoi sudditi. Mentre dovrebbe emanare luce come il sole, diffonde intorno a sé solo grigiore e desolazione. Invecchia, circondato dal ricordo dei propri delitti, timoroso dei propri sudditi, abbandonato perfino dai desideri. Congiure lo insidiano nel suo palazzo, nella sua famiglia, nel suo harem: egli le reprime sempre più stancamente; e si accorge che le prime crepe stanno corrodendo le mura dell’impero. Presto si allargheranno, si estenderanno, come rughe gigantesche che nessuna mano può contenere, e tutto il regno crollerà nella polvere da cui era nato.

Quante volte, ai tempi della giovinezza, egli aveva pensato che sarebbe riuscito a vincere con l’astuzia questo ridicolo incidente umano che è la morte. Ora ogni illusione l’ha lasciato. Se ha comandato a tutti, non può comandare alla propria vita; e non avrà in dono dalla sorte nemmeno un istante più di quelli che essa ha stabilito. Così la morte si avvicina anche ai potenti. Qualcuno viene soffocato o avvelenato dagli eredi. Qualcuno – non sappiamo se il più grande o il più atroce – continua a recitare la propria parte, mentre il corpo e le forze lo abbandonano. La sua volontà resta rigida: con la stessa attenzione di un tempo, controlla il volto e le parole, perché nulla di segreto gli sfugga; e cerca di essere amabile, per nascondere sino alla fine agli occhi di tutti – vicini e lontani, vivi e ancora da nascere – chi veramente egli è stato.

Oggi i grandi della Terra non esistono più. Sono scomparsi da non molti anni, come una famiglia di animali travolta da una glaciazione o dalla temperatura troppo alta. Lo storico del futuro possiede una data precisa. L’ultimo degli antichi potenti fu Stalin, l’uomo che amava Shakespeare e il balletto; e quando Malenkov, Berija, Molotov, Kaganovic lo trasportarono a spalla verso la tomba – era un freddissimo e grigio giorno d’inverno del 1953 – non sapevano di seppellire l’unico rappresentante di una razza ormai estinta. Pochi si accorsero di cos’era accaduto, e intonarono inni di liberazione e di gratitudine. L’epitaffio venne scritto qualche anno più tardi: lo pronunciò Kruscev; e fu grottesco, irriverente, blasfemo, come accade quando gli schiavi liberati – noi tutti – prendiamo il potere.

Joseph Stalin
Joseph Stalin

Tra coloro che ci governano, molti guidano nazioni immense, vere «monarchie universali»: hanno poteri incontrollabili, come talvolta non possedevano i sovrani di Roma e Persepoli. Eppure nessuno di loro è davvero un potente. Nessuno ha quelle qualità profonde che trasformano un uomo politico in un personaggio simbolico, che gli consentono di raccogliere attorno a sé i pensieri e le fantasie degli uomini, e invitano all’imitazione. Quando li incontriamo o li contempliamo alla televisione, abbiamo la strana impressione che non esistano affatto. Agiscono, ma non hanno un corpo: parlano, ma non hanno voce; sorridono o sono preoccupati, e non sappiamo veramente di cosa e perché. Più spesso, ci sembrano dei fantasmi – ora infelici, delicati e patetici, ora stupidi e grossolani – che cercano di imitare senza riuscirci i gesti dei potenti scomparsi.

Sapendo di agire sotto milioni di occhi, gli antichi sovrani possedevano uno spontaneo temperamento teatrale, capace di indovinare ogni vibrazione del loro pubblico; e perfino chi si nascondeva alla folla nel segreto della sua reggia, recitava sopra una scena spalancata davanti al mondo. Coloro che, nei nostri giorni, hanno in mano il a potere vorrebbero recitare come i sovrani di una volta. Quale disastro! I volti, che essi ci presentano con l’aiuto di esperti pubblicitari, truccatori, massaggiatori, sono delle maschere scolorite e lievemente sinistre, le quali non suscitano nessuna complicità nella folla.

Come vorremmo strappare dal loro volto quei lineamenti nervosi, protesi nell’ansia di piacere: quei sorrisi meccanici, quelle false cordialità; la «collezione mimica» che portano nella memoria e da cui scelgono ora un gesto ora l’altro, come una signora sceglie questo o quel vestito da una collezione di mode. In una delle sue pagine più geniali, Nietzsche descrisse la qualità sostanzialmente teatrale del mondo moderno – vestiti raccolti in un armadio, in attesa di venire indossati a modo di travestimenti. Non poteva immaginare che, mentre ogni cosa sarebbe diventata teatro, l’Occidente stava perdendo ogni più modesta qualità teatrale.

I nuovi potenti conservano i desideri di quelli antichi, ma sminuiti e indeboliti nella loro forza. L’orgoglio e la cupidigia del dominio diventano nevrosi: lo slancio, che spingeva ad uscire perdutamente dal proprio paese e dal proprio io verso gli estremi del mondo, si ripiega su sé stesso, come se il potere fosse un cappotto da indossare gelosamente, per proteggersi da qualcosa o qualcuno. Le mete politiche vengono abbandonate o lasciate da parte.

Così essi stanno nel cuore del dominio: ma temono che un soffio di vento possa lacerarlo e dissolverlo ogni mattina, e condividono l’incertezza, l’insicurezza, la labilità, che una volta distinguevano le vittime. Pochi tra loro potrebbero ripetere, le parole di Cesare: «Io sono fermo e immutabile come la Stella Polare, né movimento alcuno può scuotermi». Perché essi hanno smarrito la terribile calma della forza: il dominio sulle proprie passioni: la pazienza temporeggiatrice, che sa dove vuol giungere e vi giunge, più rapida del più rapido impeto; la dura freddezza contemplativa, che guarda le cose dall’alto, non le comprende ma le conquista.

La letteratura e i potenti
La letteratura e i potenti

Qualcuno può immaginare che, con la morte dei grandi della Terra, sia scomparso dal mondo anche il potere, questo incomprensibile vampiro. Sappiamo che non è vero. Il potere continua ad estendere ogni giorno il proprio spazio, mentre ogni giorno si allarga tra gli uomini il desiderio di conquistarlo. Se, una volta, esso mostrava soprattutto l’aspetto della forza – l’impeto degli eserciti, il veleno che uccide, il sangue versato in segreto ed in pubblico – ora si esprime in moltissime forme.

E’ immagine televisiva, parola detta o stampata, libro che finge di non avere scopo, musica ripetuta fino all’ossessione, vestito innocentemente indossato dal ragazzo di quindici anni. Tutti ne abbiamo ormai una piccola parte: i politici e i giornalisti, i giudici e i prigionieri, i banchieri e i ladri, gli industriali e i letterati, i professori e gli studenti, i padri e i figli, le migliaia di categorie sociali organizzate, le migliaia di corpi e di istituzioni nelle quali si suddivide sempre più il tessuto della società moderna. Per nostra fortuna, questi corpi si detestano ferocemente tra loro. Tra il dominio conquistato da un corpo sociale e quello di un altro, che gli sta di fronte o vicino, esistono ancora dei larghi spazi vuoti, delle brughiere abbandonate, dove possono sopravvivere e passeggiare quasi liberamente coloro che non amano comandare.

Così diffuso e molteplice, il potere ha cambiato forma. Non ha un volto riconoscibile, come era quello dei grandi della Terra: è anonimo, vuoto, indifferenziato. Per quanto ci sforziamo, non riusciamo a disegnarlo con un’immagine o una definizione. Come l’atmosfera che ci avvolge da ogni parte, esso si insinua, striscia, ci abbraccia, occupa i nostri atti, i nostri gesti, i nostri pensieri, le nostre fantasticherie. È la sostanza onnipresente dove si imbeve ogni attimo della nostra vita: qualcosa di gelatinoso e di vischioso, che si attacca a coloro che lo desiderano e anche a coloro che si trovano a camminare, per caso, presso i luoghi dove soggiorna più volentieri. Se tutti hanno o possono avere il potere, nessuno riesce veramente ad afferrarlo. Così è proprio lui a possederci, senza che noi lo sappiamo. Poche epoche come la nostra, la quale ha sepolto i grandi per liberarci dalla morsa del dominio, sono state così schiave della soggezione e del fascino del potere.

Durante i tempi più atroci della storia, vi era sempre qualcuno uno storico, un poeta, un viaggiatore, uno scriba ignoto, un testimone indifferente, spesso un servo del sovrano o lo stesso sovrano che scriveva una pagina dove l’essenza del potere veniva fedelmente rispecchiata. Oggi, temo che non esistano più questi specchi veritieri, ma soltanto degli specchi superficiali, parziali e deformati, nei quali un gruppo sociale ne critica un altro. II potere amorfo, vischioso ed anonimo, senza protezione di simboli, non interessa la letteratura: Nixon è meno attraente di Cesare, Breznev di Alessandro Magno, Perón di Montezuma.

O, forse, la ragione è diversa. Anche la letteratura – questa alta rocca, dalla quale si guarda con limpido terrore il mondo – è stata sedotta dalle insinuazioni del potere. Anch’essa ha dimenticato che l’unico, vero potere lo hanno gli inermi, gli inutili, i disarmati: coloro che non desiderano né influenza né forza, e conoscono soltanto poche grandi immagini, pochi grandi pensieri, un ritmo che fugge, melodico, capriccioso o spezzato, dietro ogni parola.

Pietro Citati
Pietro Citati

Da L’armonia del Mondo di Pietro Citati Rizzoli, 1998, Milano.

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Aforismi contro il potere

La vergogna di scrivere

La morale degli schiavi

Un popolo di pecore

Democrazia impossibile

Fascismo psicologico